La Carta dei Dialetti d'Italia (Pisa, Pacini editore 1977) elaborata da Giovan Battista Pellegrini si basa prevalentemente sui dati dell'Atlante italo-svizzero (Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, Zofingen 1928-1940) raccolti negli anni venti. La Carta rappresenta oltre ai dialetti italoromazi -suddivisi in cinque gruppi principali (che l'Autore chiama "cinque sistemi dell'italoromanzo"), cui è aggiunto il ladino centrale, distinti da una diversa colorazione- anche le varietà alloglotte parlate entro i confini nazionali. I raggruppamenti dialettali si fondano sulla distribuzione di fenomeni linguistici -principalmente di tipo fonetico- segnalati da isoglosse. La nostra elaborazione interattiva parte da una carta generale dell'Italia ed evidenzia i gruppi dialettali sulla base della Carta del Pellegrini.
L'origine dei dialetti
Sappiamo che i vari dialetti in Italia nacquero con «l'imperialismo anomalo» dei Romani; che, dopo aver conquistato le città e insediato i loro presidii (i municipia), stringevano patti di alleanza, rispettosi delle popolazioni sottomesse, le quali trovavano utile imparare il latino; tale apprendimento pare avvenisse però in modo diverso secondo la loro dislocazione geografica e le loro condizioni culturali.
Le popolazioni di lingua osca e gli abitanti delle zone confinanti con il Lazio latinizzarono i loro dialetti nativi, mentre gli Etruschi di lingua troppo diversa e di alto livello culturale, vicini a Roma, impararono il latino bene senza introdurvi elementi del loro idioma; le popolazioni più lontane e meno civili appresero infine il latino dal latino rozzo dei mercanti e dei soldati.
Nell'Italia meridionale s'introdussero diverse parole greche e i Galli parlarono in latino con accento diverso. Come generalmente fanno notare gli studiosi, la Sardegna, il Salento, la Toscana e la zona lagunare veneta non parteciparono all'integrazione linguistica per cui si differenziarono tre tipologie di dialetti: settentrionale o gallo-italico, toscano e tipologie di dialetti di transizione, meridionale (4) (oltre le formazioni di dialetti autonome come il sardo e il ladino).
Ciò che nel 1500 portò in auge il fiorentino come lingua considerata comune a tutta la nazione italiana fu il primato culturale ed economico della città; nel secolo successivo (1600), con la perdita di tale primato (Firenze era meno importante di Venezia, Milano, Napoli, Roma), la lingua italiana si caratterizzò come lingua letteraria e venne usata al posto del latino e nelle occasioni più impegnative (prediche, ...sermoni...) e si continuavano ad utilizzare in tutte le altre regioni, nel parlare, i dialetti.
Caracè osserva che nel momento dell'unificazione d'Italia la lingua italiana si presenta come una «realtà gelatinosa», «segnata da esasperate differenze nella popolazione italiana non ancora pienamente definite e superate». De Mauro afferma che a quell'epoca per il 98% degli italiani, la lingua italiana era come una lingua straniera. poiché solo l'uno per mille sapeva usarla; su 25 milioni di italiani si potevano calcolare 600 mila che sapevano usarla come italiano letterario con l'aggravante che 400 mila di essi vivevano in Toscana e 70 mila a Roma. Proprio un bel problema che fortuitamente risolse poi la TV, entrando con prepotenza e con la lingua italiana in tutte le case dei nostri compatrioti.
Qualcuno sottolinea ancora che la Sicilia rappresenta oggi la regione che, insieme al Lazio, alla Campania e alla Lombardia, ha arricchito, con propri prestiti e regali di parole ed espressioni, la lingua italiana, nonostante che con il passare del tempo le grandi industrie e la continua immigrazione interna abbiano postulato la necessità di comunicazioni sempre più ampie non effettuabili attraverso i dialetti.
Occorre allora evidenziare la vitalità interna di una lingua considerata come strumento comunicativo flessibile, ma non scindibile dai contenuti culturali e socioeconomici che la comunicazione veicola. E' per tale ragione che non ci sentiamo di condividere la faticosa ed illusoria impresa di chi sogna «l'avanzata gloriosa della lingua italiana sulle ceneri ancora calde dei dialetti», né l'altrettanto disperata quanto sterile impresa di chi voglia procedere ad un recupero forzato, forse anche un po' reazionario, di una tradizione dialettale genuina. Non è possibile un immobilismo linguistico mentre cambiano le condizioni socio-economiche e le tradizioni culturali; possiamo però percorrere la terza via che è quella della ricognizione critica, della consapevolezza e dello studio delle nostre lingue e delle nostre culture.
La lingua e la sua progressiva trasformazione strutturale e funzionale risultano pertanto nutrite di eventi storico- sociali e di vissuti personali e i criteri linguistici s'intrecciano con criteri non linguistici in modo indistricabile.
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