Made in Italy altrove
Il made in Italy sta tornando a far parlare di sé. Dopo un periodo di crisi, le cui ragioni sono solo parzialmente da ricercarsi nella maggiore competitività dei paesi con la manodopera a basso costo e nelle contraffazioni, il settore sembra dare segni di ripresa e con esso l’interesse delle istituzioni a rilanciare questo business. Le incognite rimangono legate al cambio euro-dollaro, che incide sulle importazioni e sui consumi interni, ma le previsioni della Camera nazionale della moda italiana preannunciano un indebolimento della congiuntura internazionale con una crescita inferiore agli anni scorsi per le esportazioni e una tenuta della domanda interna che potrebbe far registrare un +2,9 per cento.
Il timore è di perdere quello che è stato conquistato ormai da un ventennio, strappato allo charme francese per la moda femminile, al rigore britannico per l’uomo, all’underground statunitense e che si è soliti riunire nella definizione di made in Italy. Diventa quindi fondamentale legare la qualità all’Italia e al marchio più che alla produzione. In quest’ottica, acquista senso anche la delocalizzazione delle fabbriche e l’acquisto di nuovi brand.
ITALIANI: MADE IN ITALY? NO GRAZIE
L’economia mondiale aveva prospettato per il 2007 un aumento di 3,5 punti percentuali, ma l’ultimo trimestre ha fatto emergere segnali di rallentamento del ciclo espansivo. L’Italia torna a perdere terreno rispetto agli altri paesi dell’Unione europea e solo il gigante cinese viaggia ancora sulle due cifre. La globalizzazione ha rappresentato lo spauracchio di molte piccole aziende e la giustificazione alla delocalizzazione per i grandi gruppi. Ma oggi globalizzazione fa rima con comunicazione.
“All’estero” spiega Massimo Costa di Assomoda “c’è una differenza tra le griffe, rappresentate dai grandi marchi e considerate il vero made in Italy, e le non griffe, che sono il restante 50% del mercato ed incarnano il vero stile italiano. L’essenza del made in Italy sta nel bello e ben fatto, che non sempre coincide con il marchio di grido. Per questo le pmi dovrebbero essere aiutate e sostenute con una più marcata promozione dei singoli brand”.
Abbigliamento, calzature e pelletteria hanno trainato l’andamento positivo degli ultimi mesi, mentre è il tessile a generare più utili e assieme al settore della pelle potrebbe generare un incremento di 3 punti percentuali. Anche se nei primi mesi del 2007 la fiducia dei consumatori ha raggiunto il massimo negli ultimi 5 anni, la propensione al risparmio è comunque in aumento. Solo il 22% dei clienti intervistati dall’Osservatorio Hermes Lab intende aumentare la spesa nei prodotti moda, mentre il 7% pensa di ridurli.
“Il made in Italy all’estero” prosegue Costa “interessa soprattutto l’area Bric (Brasile, Russia, India e Cina) che nell’ultimo quinquennio è cresciuto molto ed interessa il 50% delle esportazioni che complessivamente fatturano 40 miliardi di euro sui 70 dell’intero comparto. Il migliore clima congiunturale degli ultimi 2 anni ha portato a maggiori esportazioni in quell’area, anche se è ancora presto per facili entusiasmi”. I dati dimostrano quindi che gran parte del venduto è oltre i confini nazionali, a dimostrazione che, in Italia, il made in Italy interessa ma non troppo.
FAR NEAR EAST
L’Italian Style rivolto ai non italiani interessa sempre più consumatori dell’est. “Il Giappone e la Corea” secondo Marco Boglione, presidente di BasicNet, gruppo che opera nel settore dell'abbigliamento, delle calzature e degli accessori per lo sport e per il tempo libero con i marchi Kappa®, Robe di Kappa®, Jesus Jeans®, Lanzera®, K-Way® e Superga “sono uno dei tanti mercati. Bisogna saper produrre e vendere nel mondo ed essere presenti, almeno con il retail, in maniera sempre più capillare e concentrare la produzione dove i costi sono inferiori con l’intento di mantenere una costante competitività”. Da semplici luoghi di fabbricazione, questi paesi sono diventati interessanti mercati di sbocco nei quali le possibilità di acquisto si sono andate moltiplicando.
Secondo Costa, l’est ora può rappresentare un’interessante opportunità. Puntare all’outsourcing in funzione del minor costo della manodopera, come avviene in Cina in cui il salario è pari a un decimo rispetto alla media italiana, ha rappresentato per qualche anno una carta vincente. Ma ora le rivendicazioni degli operai, non solo cinesi ma anche di alcuni paesi dell’est Europa, stanno creando dei dissidi interni ed è nuovamente tempo di ricerca di luoghi dove trasferire la produzione. Intanto in Cina è andato aumentando il numero di coloro che possono investire nel made in Italy raggiungendo la quota di 10 mila potenziali acquirenti.
Non tutti però si lasciano soggiogare dal fascino dei grandi numeri.
Il gruppo Mariella Burani, seppur interessato all’estremo oriente, come afferma l’amministratore delegato Giovanni Burani “punta molto su Germania, Austria, Svizzera e sul nord Europa, considerata un’area strutturata e solida, anche se non mancano le opportunità nell’est europeo”.
Per le multinazionali l’obiettivo è offrire una vasta gamma di brand di lusso, tra quelli di proprietà e quelli in licenza, per coprire le esigenze del mercato, indipendentemente dalla localizzazione geografica.
“Luxottica” afferma il direttore marketing Fabio d’Angelantonio “ritiene praticamente completato il lavoro di ottimizzazione dei marchi in portafoglio. Eventuali future licenze avverranno solo con brand particolarmente forti in mercati ritenuti strategici per il gruppo o che possano coprire fasce di mercato che garantiscano margini di miglioramento”. L’acquisizione delle concessioni è uno dei modi per insediarsi in nuove piazze. Ma non l’unico.
“La distribuzione all’estero” afferma Assomoda “è posta in essere con i punti vendita diretti, con il franchising e con le joint venture soprattutto per l’abbigliamento e la filiera della pelle. In questi anni si è assistito ad una delocalizzazione ma il cervello è rimasto in Italia. E’ diminuito il numero dei dipendenti nei settori manifatturieri nel nostro paese che sono stati esportati all’estero e dati in outsourcing, mentre sono state mantenute in patria le figure ad alto profilo, con una media superiore agli altri paesi europei”.
PICCOLA ITALIA IN NUMERI
Il settore tessile e dell’abbigliamento ha incontrato crescenti difficoltà a causa della diminuzione al 5% dell’incidenza di questa spesa sul reddito familiare per un ammontare di 1.300 euro l’anno, valore che, 12 anni or sono, ammontava a più del doppio. Inoltre i negozi tradizionali e le imprese medio piccole hanno perso terreno, con una contrazione delle vendite del 25%. Per non diminuire ulteriormente lo share di mercato è necessario concedere sconti, saldi e promozioni che tendono a restringere i margini con un rincaro medio per le pmi pari al 60%. Aggiungendo le condizioni climatiche, la nascita delle grandi catene distributive e dei centri commerciali che hanno costretto a chiudere numerose botteghe di vicinato che non potevano sopravvivere con le sole esigue spese delle persone anziane e la nascita di outlet e spacci industriali (nel 2006 hanno raggiunto i 460.000 metri quadrati di allestimento), si è approdati ad una crisi per il settore al minuto quanto a quello produttivo. I dati di Confartigianato moda dirigono l’export italiano verso l’India e il Taiwan con una leggera sproporzione a favore delle importazioni nella bilancia dei pagamenti. La Cina continua a esportare merce in Italia, in particolare scarpe (+300%) che hanno subito una riduzione del costo medio del 25% con conseguenti tagli per le aziende soprattutto sul lavoro.
“Il tessile e l’abbigliamento” conclude Costa di Assomoda “devono affinarsi per stare al passo con l’est, perché oggi, prima di pensare ad un prodotto, bisogna sapere come venderlo. Diviene inoltre fondamentale rendere snelli i rapporti tra produttori, clienti e distributori”.
La crescita si ottiene con il completamento della filiera, insegna Luxottica. “Per raggiungere una leadership mondiale nel settore ottico” afferma D’Angelantonio “la nostra azienda ha puntato sull’integrazione verticale dalla progettazione, produzione e distribuzione dall’ingrosso al minuto e ha esteso un network con il wholesale e il retail che massimizza la capacità del gruppo di servire il mercato e controllare al meglio i costi e i tempi. In questo modo possiamo offrire una struttura produttiva flessibile ed efficiente in grado di rispondere tempestivamente all’andamento del mercato”.
MILANO CAPITALE
I legami tra Milano e la moda sono cresciuti nel tempo, dapprima con atelier e sfilate poi con una riqualificazione urbanistica funzionale al settore, non solo attraverso i grandi stilisti ma anche con le realtà minori tipiche dell’imprenditoria nostrana. Questo ha smosso le istituzioni milanesi e la Camera di commercio che, con una serie di incontri, stanno rilanciando e progettando il binomio moda Milano. Le oltre 3 mila imprese sul territorio rappresentano il 7% del totale nazionale e fatturano il 9% dell’export pari a 3 miliardi e mezzo di euro. Milano quindi diviene più che una sede delle settimane della moda internazionale, ma un luogo che riunisce l’intera filiera, dalla produzione, all’esposizione alla vendita, integrando l’intero processo nella storia della città e nella vita dei cittadini. Per Milano moda significa iniziative in movimento: con la settimana della moda si coordinano eventi come la notte bianca, mostre, l’apertura di showroom, ora pianificata dalla Camera nazionale della moda italiana, che fanno brillare piazze e strade. Il risultato è una maggiore attrazione per il turista, cui è offerto il pacchetto completo dallo shopping alla cultura e all’intrattenimento, ed una migliore collaborazione tra le istituzioni del territorio, tese a rendere queste esperienze uniche e perfette.